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12.03.2017 - 23:170
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:43

Il Caffé scrive al procuratore, "avremmo voluto ascoltare le sue motivazioni. Quali sono i nuovi confini per la stampa?"

"Qual è l’unità di misura per stabilire che, per esempio, sette servizi giornalistici vanno bene ma dodici sono troppi e quindi diffamanti? Ma lei in aula non ci sarà", chiede Lillo Alaimo a Antonio Perugini

BELLINZONA - Il direttore responsabile del Caffè, dopo i quattro decreti d'accusa, contro di lui e altri due giornalisti, e la decisione del procuratore Antonio Perugini di non comparire in aula, gli scrive una lettera aperta. La polemica, insomma, continua. Ecco il testo di Alaimo: "Egregio signor procuratore Antonio Perugini, comprenderà le ragioni di questa nostra lettera aperta. Riteniamo che il caso che ci coinvolge (oggi noi quanto lei) sia di straordinario interesse pubblico. Nella condanna da lei emessa dieci giorni fa contro tre giornalisti del Caffè e il sottoscritto direttore responsabile del settimanale, non c’è di fatto alcuna motivazione. Nei quattro decreti d’accusa per diffamazione e concorrenza sleale - al centro della causa sono i servizi della nostra testata sul tragico errore medico del luglio 2014 nella clinica Sant’Anna di Sorengo (furono asportati per un errore di identità i seni ad una paziente) - non c’è motivazione se non..., converrà con noi, una sorta di copia e incolla dalla denuncia fatta dalla clinica. La clinica accusa, il procuratore copia e incolla. Non se ne abbia a male, ma così agli occhi di molti se non di tutti è parso. Non c’è motivazione e, cosa anomala a nostro avviso, non ci sarà nemmeno in futuro perché lei ha rinunciato a partecipare al dibattimento che si terrà in pretura. Ce lo ha comunicato questa settimana respingendo le richieste del Caffè (ovvero acquisire agli atti, verbali e testimonianze del personale della struttura sanitaria privata a comprova, se ce ne fosse necessità, del fatto che ogni parola pubblicata corrisponde a verità). In aula, davanti al pretore, ci saranno solamente i giornalisti accusati e il sottoscritto, il loro legale (l’avvocato Luca Allidi) e la clinica, rappresentata dall’avvocato Edy Salmina. Lei signor procuratore, che ha sposato integralmente le tesi della Sant’Anna, non verrà a spiegare il perché di questi decreti d’accusa. Certo, non è la prima volta che lei sceglie questa... strategia. Respinge l’opposizione ai decreti, conferma le condanne proposte e chiude la porta del suo ufficio evitando di doverne spiegare il perché in pretura. Sbrigatevela voi! La sua è una decisione che a noi pare voglia svuotare di ogni significato un caso che ha in sé importanti risvolti legati alla libertà di opinione e di stampa, con implicazioni che hanno direttamente a che fare con il libero dibattito in una vera democrazia. E per di più al centro c’è la salute pubblica. Perché ci sarebbe diffamazione se non è stata scritta dal Caffè una parola, una notizia che non sia corrispondente a verità? E ciò è d’altra parte dimostrato dai quattro decreti d’accusa (si trovano integralmente su caffe.ch). Perché si può condannare per diffamazione un giornale che ha posto (senza aver ancora oggi ricevuto risposta) domande di interesse generale, interrogativi legati alla salute e alla sicurezza delle strutture sanitarie pubbliche e private? Perché è diffamante chiedere quale procedura di sicurezza sia stata applicata all’interno della clinica, se l’errore di una sola persona, il chirurgo che operò, ha potuto causare un simile disastro? Perché è diffamante chiedere e richiedere come sia possibile che, oltre alla responsabilità di quel medico, non siano state a tutt’oggi prese in considerazione eventuali responsabilità nella gestione organizzativa della clinica (l’inchiesta penale su quell’errore non è ancora chiusa, come lei ben sa, ma l’unico sotto inchiesta è sino ad ora il chirurgo)? Come è possibile ciò, visto anche che il presidente della Commissione di vigilanza sanitaria, il giudice Mauro Ermani, ha scritto testualmente in un suo rapporto che alla Sant’Anna i chirurghi lavoravano come "acrobati senza rete...". E ancora: è normale che, come dichiarato a verbale dal personale infermieristico, al tempo di quell’errore e anche successivamente, i medici assistenti dei chirurghi in sala operatoria fossero sostituiti da infermiere strumentiste, anche per operazioni complesse? Complesse, come appunto l’asportazione dei seni alla paziente vittima di quell’errore di identità. In aiuto del chirurgo quel giorno, e solo a metà operazione perché impegnata altrove, arrivò infatti una strumentista. Le domande "diffamanti" poste dal Caffè, come lei ben sa signor procuratore, non finiscono qui. C’è altro. È normale che la clinica non abbia detto alla vittima la verità sull’accaduto per oltre quattro mesi, nell’attesa che lo facesse il chirurgo? Ed è normale che, nonostante l’obbligo imposto dalla legge sanitaria come ricordato anche dal giudice Ermani, non abbia mai segnalato i fatti all’autorità sanitaria o a quella penale? E tanto per chiudere con queste "diffamanti" domande: se, come sostiene la clinica, l’unico responsabile di quell’errore fu quell’"irresponsabile" chirurgo, perché mai la Sant’Anna gli permise di continuare ad operare per oltre un anno, consentendogli di eseguire 200 e passa interventi? Il primo già un’ora dopo il grave errore. Sarebbe stato arricchente per il dibattito pubblico, signor procuratore, poter sentire in aula le sue motivazioni in merito alle condanne emesse contro quattro giornalisti, ancora oggi convinti di aver fatto il proprio lavoro con estremo scrupolo e serietà. Sarebbe stato interessante poter ascoltare le sue argomentazioni in relazione agli interrogativi legittimi e stringenti che i cittadini si sono posti e si pongono dinanzi a quanto accaduto. E dinanzi alla nostra inchiesta giornalistica, per la quale circa 2.700 persone hanno sino ad oggi firmato l’appello in difesa della libertà di stampa. Chiedendosi oltre tutto come sia possibile, nonostante la giurisprudenza federale e di Strasburgo, condannare dei giornalisti anche per il reato di concorrenza sleale (in questo caso solo il direttore responsabile della testata). Quali sono i nuovi confini entro i quali la stampa può svolgere il proprio dovere? Quando diventa diffamante porre domande per cercare di comprendere fatti e fenomeni? Qual è l’unità di misura per stabilire che, come si è fatto con i suoi decreti d’accusa, sette servizi giornalistici (così, un numero a caso tanto per fare un esempio) vanno bene ma dodici sono troppi e quindi diffamanti? Benché gli interrogativi restino irrisolti. Domande, anche sul comportamento della magistratura (sia per il nostro caso sia per quello relativo all’errore medico), ce ne sono eccome da porre! E ciò, signor procuratore, a noi pare legittimo in democrazia. È anche per questo che ci siamo permessi di scriverle questa lettera aperta. E prima ancora di fare... i giornalisti. Nell’attesa di una sua cortese risposta, che non macheremo di pubblicare la prossima domenica, voglia gradire, egregio procuratore, i nostri più cordiali saluti".
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