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Cronaca
08.06.2017 - 19:200
Aggiornamento: 21.06.2018 - 14:17

Di Riina, del perdono e della giustizia. "Gli auguriamo un'angoscia che non lo faccia più vivere senza piangere e chiedere perdono"

Riflessioni con Don Feliciani, a partire dalla vicenda del boss mafioso. "Il perdono è la giustizia nella sua pienezza. Quella volta che la madre del pedofilo e della vittima piansero insieme"

CHIASSO – Totò Riina, il boss dei boss della mafia siciliana, merita davvero di poter morire fuori dal carcere, dopo i delitti commessi, fra cui ricordiamo la strage di Capaci e l’aver fatto sciogliere nell’acido un bambino? Il caso, etico e giuridico, che sta facendo discutere l’Italia, è stata l’occasione per parlare di perdono e di giustizia, di pentimento e di vittime, con l’arciprete di Chiasso, don Gianfranco Feliciani.

Nel caso Riina si sovrappone l’opinione di chi ritiene che una persona come lui, con i suoi trascorsi, non meriti di lasciare il carcere, mentre altri si battono per una morte dignitosa. Lei da che parte sta?
“Il perdono cristiano non è minimizzare il male che si è fatto. Proprio oggi leggevo quello che disse il cardinale Biffi di Bologna al funerale delle vittime della strage in stazione. Sono frasi che meritano, gliele leggo: ‘essi però, questo assassini, restano nostri fratelli, e noi oggi preghiamo anche per loro. Preghiamo e auspichiamo, ed è un auspicio di misericordia e di amore, che Dio non dia più pace alle loro coscienze sviate e le tormenti con i rimorsi più insopportabile fino a che essi ritrovino la via del pentimento e della salvezza’. Mi sembra una spiegazione del perdono cristiano. Tornano a Riina, non gli si devono negare le cure del caso, ma bisognerà fare in modo che questa sorta di libertà non possa essere usata per fare ulteriore male”.

Quindi è favorevole a eventuali domiciliari?
“Sì, ad un patto: che non sia un lassismo della giustizia, ma che sia una giustizia applicata, nel senso che, appunto, gli sia impedito di fare del male ancora”.

Non sembra però una persona pentita…
“Sono crimini orripilanti, i suoi. Ma chi può penetrare nel mistero di una coscienza? Il perdono implica la riconoscenza del male fatto. Auguriamo a questo povero fratello Riina di soffrire, di sentire i rimorsi che non gli danno più pace, l’angoscia del cuore proprio perché si possa redimere. Il perdono non è mai un accantonare la giustizia, è qualcosa di più, che non la contraddice, bensì è la sua pienezza. Non possiamo chiuderci al bene, sennò saremmo assassini anche noi”.

Direbbe queste parole alle famiglie delle vittime?
“Sì. Ho avuto contatti con persone che hanno ricevuto molto male, per esempio a cui hanno ammazzato il marito. Il perdono conosce passi, non si può buttar là così dicendo che ‘si deve perdonare’. Sono rimasto edificato dai passi compiuti da questa gente, che mi diceva un po’ i concetti che esprimevo prima: noi non vogliamo scendere ai loro livelli, non vogliamo vendetta, non vogliamo che loro passino quello che abbiamo provato, perché diventeremmo come loro. Di primo acchito, è vero, prevalgono sconcerto e rabbia ma col passare del tempo si agisce diversamente, anche in ricordo di chi è morto e ha lottato per la giustizia, penso a Falcone e Borsellino. Ho visto in tanti toccati dal male affiorare questo sentimento nobile e cristiano. Vogliono rispondere con la giustizia, e la prima premessa è far sì che non facciano più del male. Se dunque portare Riina in una struttura gli permette di entrare a contatto con altri mafiosi, dico no”.

Non sminuirebbe la sua punizione? Potrebbe morire a casa sua, tra i suoi cari, come chi non è condannato
“Penso che non ci sia una grandissima differenza, non siamo ai Piombi di Venezia o ai lager. I parenti possono essere vicini a chi muore in carcere, che ha le cure ordinarie. La dignità gli sarebbe assicurata anche in prigione. Il perdono non è mai un accantonare la giustizia, è qualcosa di più, che non la contraddice, bensì la sua pienezza. Sarebbe un precedente? La nostra giustizia democratica si muove comunque nel senso di non torturare o ridurre alla fame, alla sete o picchiare nessuno, non è previsto. Nella struttura della legge vi è il non vendicarsi”.

Ciò che diceva sul perdono, ovvero sul non reagire alla violenza con la violenza e di augurare i rimorsi, vale anche per i terroristi?
“Per tutti. Io prego per te, assassino, terrorista, perché nella tua anima ci sia un’angoscia tale da non poter più riuscire a vivere senza metterti a piangere e chiedere perdono. Ti auguro la sofferenza non della vendetta ma del rimorso che redime e ti fa tornare a essere un essere umano e non un mostro. Penso che come esseri umani e come cristiani non dobbiamo disperare di nessuno”.

Le è capitato di dialogare con persone arrivate a questo stadio, al pentimento?
“Certo, anche al di fuori dal carcere, perché non tutto il male commesso comporta un reato,  mi viene in mente un brutto tradimento, per esempio. E non scordiamo i parenti di chi fa del male. Ho visto la mamma di un pedofilo soffrire tantissimo, piangere assieme alla madre del bambino stuprato. E mi ha toccato il cuore, ritengo che i conti vanno fatti fino in fondo, tenendo conto anche di chi soffre per il dolore causato dai propri cari. Uno non è mai assassino da solo, c’è sempre qualcuno di congiunto e buono che sta male per lui”.


Paola Bernasconi
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