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Cronaca
19.10.2017 - 17:000
Aggiornamento: 21.06.2018 - 14:17

La povertà sommersa in una tesi. Il senso di vergogna, la paura che pervade anche le classi medie, quel "può succedere a tutti". E gli aiuti, fermi a dieci anni fa

Cinzia Frei ha scritto il suo lavoro di laurea magistrale sul tema. "È difficile trovare qualcosa, gli studi sono datati, e la povertà statisticamente è divisa: non ho dunque cifre certe. Ma essa non è più solo mancanza di soldi. Nelle grandi città, è più facile chiedere aiuto"

BELLINZONA - Cinzia Frei nell’ambito del suo lavoro di laurea magistrale si è occupata della povertà estrema in Ticino, incontrando difficoltà e reticenze, nei numeri e nei concetti, toccando con mano storie e arrivando a una conclusione: rispetto a dieci anni fa, è cambiato poco.

L’abbiamo contattata per parlare con lei di quanto ha scoperto.

Cos’era l’argomento della tesi?
“La povertà estrema in Canton Ticino: se c’è, che tipo di povertà c’è, quali risposte offre il territorio e quali problematicità ci sono sul territorio. Il corso di laurea era consulenza pedagogica sulla marginalità e la disabilità, inoltre ai tempi avevo ospitato delle persone con difficoltà di alloggio e conoscevo Casa Astra: quindi parte anche da qualcosa di particolare”.

Come ha svolto le ricerche?
“Dapprima ho collaborato con Donato di Casa Astra che conoscevo bene, poi ho chiamato vari uffici dell’aiuto sociale in alcune città del Cantone, ho letto diversi libri sul tema, anche se fondamentalmente sono su altre città europee, e su come svolgere una ricerca nel sociale. Poi ho indagato in Ticino…”

Cosa ha trovato?
“Innanzitutto la difficoltà a trovare qualcosa. Ci sono pochissimi studi, peraltro datati, parlo di 2004 e 2009, dunque non più attualissimi, anche se i problemi risultano tutt’ora simili. Pure le cifre sono difficili, ci sono diverse definizioni e divisioni e non è semplice arrivare a un numero chiaro, netto e sicuro. Per esempio c’è la povertà con reddito mediano, oppure con reddito assoluto, c’è anche la privazione materiale (ovvero quando non ci si può permettere determinate cose però si può vivere, per esempio l’impossibilità di far fronte a una spesa improvvisa di 2'000 franchi), che non è ritenuta povertà a livello statistico ma che per me lo è. Infine ci sono le prestazioni complementari, che non rientrano in tutte le statistiche dato che riguardano persone sopra i 65 anni. Non sono riuscita infatti a quantificare esattamente i poveri. Le cifre che ho citato nella tesi sono quelle di persone che hanno ricevuto una prestazione assistenziale, nel 2015, 7'050. Per quanto concerne chi è senza alloggio e in condizioni estreme non è quantificabile. Ci si può basare sulle domande di Casa Astra, che non riesce a soddisfarle tutte, per mancanza di risorse finanziarie e umane non ne tengono conto. Adesso sto cercando con Donato un modo per mantenere una check list”.

C’è dunque molta povertà sommersa in Ticino?
“Si, soprattutto per le persone residenti, che hanno un muro di vergogna a chiedere aiuto. Il meccanismo con cui si comincia è lo stesso, prima di chiedere aiuto al Cantone lo fanno a genitori e parenti, poi chiedono un credito privato, indebitandosi, o provano ad arrangiarsi da soli. Per esempio, c’è gente che non riscalda la casa per non spendere. E il tutto viene alla luce quando è davvero tutto grave”.

Il sentimento di vergogna blocca chi è povero? Se ha raccolto delle testimonianze, cosa l’ha colpita?
“È molto presente, anche nelle testimonianze. Quando incontri qualcuno la prima domanda che pongono è che lavoro fai, e se non puoi rispondere subentra la vergogna, che porta a non uscire più di casa, perdendo la propria rete di sostegno. Le testimonianze raccolte? Di persona ho parlato informalmente con chi ho ospitato in casa e con gli ospiti di Casa Astra, altre sono presenti negli studi di Rossini, che aveva studiato 165 casi di persone escluse dal sistema sociale svizzero. Fondamentalmente in comune hanno il fatto che sono piccoli eventi che portano ad arrivare in fondo alla spirale della povertà estrema, eventi diversi tra loro, dal divorzio alla malattia. Se c’è una rete di sostegno attorno si riesce a superare il tutto, sennò si va sempre più giù. Mi hanno stupito la frustrazione e la mancanza di chiarezza verso queste persone. Esse vanno in un ufficio a chiedere finalmente aiuto, e vengono rimpallate in un altro, dovendo raccontare ogni volta dall’inizio la propria storia, sentendosi presi in giro per questo”.

Quanto tempo aspettano le persone prima di chiedere aiuto?
“Non saprei quantificare. Nelle grandi città è anche più facile, perché nei paesini se si va allo sportello comunale si incontrano persone conosciute. Se lo facessi io, per esempio, incontrerei la mia vicina di casa… E spesso non si vuol far sapere in che situazione ci si trova. Si vogliono nascondere e oltretutto non sono supportati a dovere, perché compilare e ottenere tutti i documenti che servono per ricevere l’assistenza non è evidente per chi ha già qualche difficoltà”.

Si tratta soprattutto di persone sole?
“Non è detto, la maggior parte sì ma ci sono anche famiglie intere. Uno degli obiettivi del programma di lotta alla povertà è c’entrato sul prescolare. Il programma Harmos per i bambini, con l’asilo su 4 anni, serve per prendere a carico anche i più piccoli, anche se poi risulta che già a 4-5 anni il gap è spesso incolmabile”.

Da quel che si evince, può succedere a tutti, vero?
“Gli ultimi studi dicono che ci può cadere chiunque, e anche se non ci sono grandi possibilità che capiti, c’è quest’ombra che aleggia. Le classi medie vivono con la paura si finire in povertà, e questo corrode lo stato di salute. Non si parla infatti più solo di povertà intesa come mancanza di soldi ma a livello multifattoriale e cumulativo. Per esempio, si perde il lavoro, in casa c’è tensione, si arriva al divorzio, è una spirale che se non viene arrestata porta anche a divenire senza dimora. Da noi il fenomeno è contenuto però bisogna agire prima, non dopo”.

Che sensazioni prova alla fine della sua ricerca?
“Tanta frustrazione, perché i problemi visti nei sistemi di aiuto a livello svizzero e ticinese dieci anni fa sono ancora presenti. Si parlava già di creare un numero verde o uno sportello unico e non sono stati fatti. Così come togliere gli aiuti a bersaglio, faccio un esempio: un tossicodipendente viene aiutato per la dipendenza senza contare altre problematiche e non c’è una presa a carico totale. I numeri stanno aumentando, anche perché se ne parla di più, a livello burocratico non sono state messe in campo le soluzioni prospettate. C’è Casa Astra, non basta”.

Si aspettava di arrivare a questi risultati?
“Conoscendo già la realtà, sì”.

Paola Bernasconi
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