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21.11.2017 - 16:550
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:43

Davide Buzzi, "canto questo mondo dove si è sempre più social ma non ci sono veri amici. E non mi nascondo: nelle canzoni c'è il mio pensiero"

L'artista ci parla del suo cd, "Non ascoltare in caso di incendio": "Il singolo che lo lancia, "Te ne vai", è un inedito... del 1992. Poi racconto di un trombettiere morto sul Carso e di una donna picchiata dal marito alcoolista. A causa della malattia scrivo con rabbia interiore" ASCOLTA IL SINGOLO

BELLINZONA – Un nuovo disco, senza censure, per dire ancora una volta quello che pensa, su vari argomenti. “Non sono canzonette”, ci specifica subito Davide Buzzi, artista che da anni purtroppo lotta con una malattia, quando lo contattiamo per parlare del suo ultimo lavoro discografico, dal titolo “Non ascoltare in caso di incendio”, e in particolare del singolo che lo lancia, “Te ne vai”.

Ci parla del suo lavoro?
“Già il titolo dell’album fa capire che non si tratta di canzonette, o meglio potrebbero esserlo ma dietro c’è sempre un discorso impegnativo da seguire. Ho scelto per lanciarlo “Te ne vai”, una delle ultime, se non l’ultima, canzone incisa. Sono andato a rovistare fra le cose vecchie e ho trovato questo brano scritto nel 1992…”

Quindi non è un brano nuovo…
“È inedito, ma ancora attuale. Rispecchiava un mio pensiero nei confronti del mondo, della politica, dell’Europa, avevamo appena votato la non entrata nell’UE. Era un brano con un suo perché, poi maturando si sono aggiunte tante cose, tra cui il fatto che la gente tende a essere tutta social: tutti amici social, ma se nella realtà cerchi un amico vero, non c’è perché tutto si fa social, tutto si fa interagendo al massimo durante gli aperò, neppure i colleghi non sono più amici. Tu uomo in fondo pensi al tuo orticello e non ti importa degli altri e dei problemi del mondo. Abbiamo sempre più contatto col mondo e siamo sempre più indifferenti”.

Dunque collega la situazione europea con quella umana?
“Sì, non intendevo solo l’Europa, ma sicuramente questo discorso c’entrava. All’epoca ero molto arrabbiato, non volevo mostrarmi arrabbiato, e dunque non lo feci uscire”.

Perché non voleva farsi vedere arrabbiato?
“Avevo poco più di 20 anni, cercavo di tenere la faccia pulita, poi non ci sono riuscito visto che litigai anche coi giornalisti… (ride, ndr). Credevo in quel che facevo, il problema è che in Ticino non c’è molta gente che ha la mia stessa determinazione su quello che si vuol dire e che non è il linea con le solite cose. Quando uno vuol fare l’artista a tutti i costi non è facile, ci si arrabbia. Spesso manca il talento però è corretto litigare per ciò a cui si crede”.

Crede ancora in ciò che fa?
“Vedo quando faccio per esempio un firma libro, la gente passa, guarda e se ne va. Se sei un nome si avvicinano più facilmente, ma anche lì non è semplice. Se le persone non hanno sensibilità, un artista lo sente, perché deve vendere i dischi per recuperare i soldi. Se non riesce, mancano le motivazioni, basti pensare a qualcuno che si esibisce in un teatro vuoto. Si pensa che l’artista è volontario e può lavorare sempre gratis, non è così. E questa mancanza di sensibilità ha portato a una crisi in tutto il mondo sull’arte. Qui in mezzo a 300mila persone è dura, se già quei pochi non ci sentono… non si raccoglie niente”.

Ma allora, cosa la spinge a cantare?
“Io lo faccio perché ci credo e perché è la mia unica attività. Se non voglio morire sulla poltrona devo fare qualcosa. La mia malattia è degenerante e sto sempre peggio, questo mi porta a fare qualcosa in modo che io abbia degli obiettivi da raggiungere, che aiutano nella cura, nel sopravvivere, nel vivere bene. Quindi sono diverso, mentre un artista che deve fare anche un altro lavoro, la famiglia, si deve lasciar andare. Non puoi investire soldi per non guadagnarne”.

Quali sono i temi generali del disco?
“È un disco ricco di storia, parla e a tratti ricorda cose avvenute, come “Romaneschi”, uscito nel 2016, come “Salvatore Fiumara”, la storia di un trombettiere che durante la prima guerra mondiale è andato a morire sul Carso. Parla anche di storie non belle, di un mondo dove tutti si girano dall’altra parte, è meno altruista. “Alice le ali”, per esempio, racconta di una donna che per vivere deve vendere angurie e meloni ai bordi della ferrovia e quando arriva a casa prende un sacco di botte dal marito alcoolista e nessuno si accorge di lei. È un disco che tocca temi scomodi e non si fa mancare niente. È il mio pensiero, non mi sono nascosto.  C’è “Aspetterò” dove faccio suonare, diciamo, delle campane a chi voglio.  Quel che si dice in musica in fondo viene sempre perdonato…”

La malattia quanto influisce in quello che scrive?
“Nel mio caso nessuno si è girato dall’altra parte, io sono indipendente e autonomo, anzi vorrei poter dare una mano io a qualcuno che ha bisogno. Spesso non c’è una visione verso il prossimo come c’era una volta, quando si viveva nei paesi piccoli e ci si dava una mano, ma giudicandosi. La malattia ha influito sul modo di pormi su quel che dico, c’è una rabbia interiore verso la ma situazione, io voglio guarire, non voglio assolutamente morire, e lo dico urlando. Su quello che scrivo invece non ha influito, semmai mi ha permesso di ragionare in modo meno egoistico. Del tema però non parlo nelle canzoni. Ovvio comunque che un po’ influenza”.


Paola Bernasconi
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