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Cronaca
28.02.2020 - 08:520

Da San Carlo a Boccaccio, da Manzoni a Camus... Le parole della Peste. Ma il vero virus che dovrebbe spaventarci è...

Lungo il sentiero che conduce alla Corona dei Pinci, sui monti di Ronco sopra Ascona, i nostri avi avevano piantato una fila di croci: avrebbero dovuto proteggerli contro l’epidemia di peste scoppiata sul finire del Cinquecento

Chi ha visto “La spada nella roccia” di Walt Disney ricorderà l’epica sfida tra Magò e Merlino: in una fantasmagorica girandola metamorfica, i due maghi si trasformano in animali reali o immaginari. Magò è sempre in vantaggio e pare sul punto di vincere, fino a che Merlino ha un’idea geniale: tramutandosi in un virus (o in un battere) sbaraglia l'avversaria, che nel frattempo aveva assunto le sembianze di un terribile drago sputafuoco.

Ecco, è proprio lo stesso microscopico e micidiale virus di fronte al quale oggi ci sentiamo indifesi, noi, signori del cielo e della terra, abbandonati perfino dal Dio dalla scienza… Il virus che come un nemico silenzioso e invisibile infetta i corpi, ma soprattutto le menti, generando pandemie di panico e di paranoia. In queste settimane non parliamo d’altro. Chi ridendo e scherzando, chi esagerando, chi minimizzando… Ma tutti noi, non stiamo parlando d’altro.

E così, questa epidemia dei tempi moderni, ci riporta ai secoli bui, quando il morbo si chiamava peste. O morte nera. Allora, proviamo a pensare a quello che sta succedendo oggi guardando al passato. Attraverso le parole della peste…

La peste di San Carlo

Lungo il sentiero che conduce alla Corona dei Pinci, nel bosco di faggi che ricopre i monti di Ronco sopra Ascona, i nostri avi avevano piantato una fila di croci: quei simboli di preghiera avrebbero dovuto proteggerli, come una sacra 'Linea Maginot' , contro la pestilenza scoppiata sul finire del Cinquecento. La "Peste di San Carlo”.

Il Borromeo era in quegli anni arcivescovo di Milano e nelle sue visite pastorali percorreva il Ticino a dorso di mulo (così è raffigurato nel Duomo), tra Ascona e il San Gottardo, passando dalla Calanca, dove fece imprigionare e condannare decine di eretici e di streghe. Ma questa è ancora un’altra storia.

La peste di Boccaccio

A quel tempo non c’erano cure alternative alla preghiera, né per la peste né per altre malattie. Non restava che mettersi nelle mani di Dio (cosa che del resto ci tocca a volte fare anche oggi). Tanto più che la peste, come altre sventure, individuali o collettive, era considerata un “castigo di Dio”.

Non restava dunque che implorare il Signore, oppure scappare, isolarsi, ritirarsi sulle colline di Firenze, come fanno i protagonisti del “Decameron” di Giovanni Boccaccio, dieci giovani - sette donne e tre uomini - che per dieci giorni lasciano la città per sfuggire all’epidemia scoppiata verso la metà del Trecento, e che a turno si raccontano delle novelle: le cento novelle che compongono una delle più grandi opere letterarie del Tardo Medioevo.

E guarda un po’, anche allora, l’epidemia era arrivata della Cina. Era il 1346. Passano gli anni, passano i secoli… Ma per dirla con Nietzsche, “l’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!”. È l’eterno ritorno…

Boccaccio racconta i devastanti effetti sociali, e non solo mortiferi, della peste: “E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano”.

La peste manzoniana

La peste fa anche da sfondo a un’altro capolavoro della letteratura italiana, più citato che letto, “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni.

“La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c'era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia”. Così inizia il capitolo 31 del romanzo, dedicato all’epidemia che si abbatté su Milano nel 1630.

Il morbo, portato questa volta dai Lanzichenecchi - le milizie mercenarie tedesche, le "bande alemanne", appunto - si diffuse tra il 1629 e il 1633 in diverse regioni dell'Italia settentrionale, raggiungendo anche il Granducato di Toscana e la Svizzera. Il Ducato di Milano fu uno degli Stati più gravemente colpiti, come lo era già stato mezzo secolo prima, con la “peste di San Carlo”. E come lo è oggi col Coronavirus.

Racconta Manzoni: "Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un'intera famiglia. Nell'ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, i cadaveri di quella famiglia furono, d'ordine della Sanità, condotti al cimitero, sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore, s'alzava per tutto dove passava il carro; un lungo mormorìo regnava dove era passato; un altro mormorìo lo precorreva. La peste fu più creduta: ma del resto andava acquistandosi fede da sé, ogni giorno di più; e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla".

Già: “Quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla". La ragione impone sempre, di fronte a un’epidemia, di evitare assembramenti pubblici. Quantomeno a scopo preventivo. Il carnevale ormai s'è fatto, ma da oggi in poi, per restare in tema manzoniano, non s'ha da fare... Un po' tardi, magari, ma tant'è.

Dagli all’untore!

Allora come oggi, il terrore della peste scatenava la caccia ai presunti colpevoli dell’epidemia: non solo ai portatori, ma anche ai propagatori. Oggi i cinesi, i lombardi, e magari fra qualche giorno anche noi ticinesi. Come non vedere un parallelo tra passato e presente, quasi un archetipo dell’inconscio collettivo, per dirla con Jung?

Nacque così la figura dell’untore, personaggio assolutamente immaginario che spalmava sostanze venefiche per diffondere l’epidemia, “ongendo i cadenacci e ferri delle porte delle case”, come riporta un testo dell’epoca. Con quale scopo? “Mantenere il male nella città per arricchirsi delle spoglie de morti”. Già, ci vuole sempre un movente quando si cerca un colpevole.

La Colonna Infame

Alla figura dell’untore, Manzoni ha dedicato un’altra celebre opera, un saggio: “Storia della Colonna Infame”.

La vicenda, vera e non fake, narra del processo celebrato a Milano, sempre durante la peste del 1630, contro il commissario della sanità Guglielmo Piazza e il barbiere Gian Giacomo Mora, accusati da una "donnicciola" del popolo, Caterina Rosa, di aver usato misteriose sostanze per diffondere il morbo. I due vennero giustiziati con il supplizio della ruota, e sulla bottega del barbiere venne eretta, come monito, la "colonna infame", che rimase lì fino a 1778, a testimoniare l'infamia non tanto delle vittime innocenti ma della follia dei giudici e del popolo.

 Giova dunque ricordare - e gioverebbe anche rileggere i libri che raccontano quelle vicende passate -, per evitare che il panico scatenatosi nelle menti di molti (troppi!) di fronte all’epidemia di Coronavirus produca una nuova caccia alle streghe.

Nosferatu il Vampiro

La figura dell’untore si ritrova anche nel sanguinario Nosferatu, capolavoro cinematografico del regista tedesco Werner Herzog (ma già prima in quello di Murnau, girato nel 1922): il Vampiro porta la peste dalla Transilvania alla Germania, approdando a Wismar, cittadina sul Mar Baltico, a bordo di una nave fantasma. La scena più bella del film, è appunto quella della peste, quando i morituri cittadini di Wismar, festeggiano le loro ultime ore di vita ballando, mangiando, bevendo, e ingroppandosi capre in una piazza invasa dai topi. È il carnevale, bellezza… Moriamo in allegria!

La Peste di Camus

Per chiudere questo breve viaggio storico, metaforico, letterario e socio-psicologico tra le “parole della peste”, non si può non citare il visionario romanzo di Albert Camus, che ambientò “La Peste” nella città algerina di Orano nel 194… Camus non precisa l'anno, ma quel 194... lascia chiaramente intendere che la Peste a cui allude, e che racconta, è più ideologica che morbosa, una peste che colpisce la mente più che il corpo. “Nel mondo – scriveva – ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati”.

E forse, soprattutto da questa Peste, che trascuriamo e sottovalutiamo, da questo virus sociale propagato dalla globalizzazione e dal consumismo, dovremmo guardarci oggi, prendendo spunto dal blackout della ragione a cui stiamo assistendo. Il Coronavirus sarà, alla fine, solo un piccolo incidente di percorso sull'illusoria via dell'immortalità.

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