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01.11.2017 - 11:530
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:43

"L'amore non muore mai". Don Feliciani e le giornate dei defunti. "La morte è un tabù, e un pugno nello stomaco. Il paradiso è un concetto cristiano ma soprattutto umano"

In occasione di questa ricorrenza, riflettiamo assieme all'arciprete di Chiasso. "Ragazzi e bambini non vengono portati al cimitero, è un grande sbaglio perché si crea un vuoto educativo. Avevo paura a celebrare i funerali, ora trovo che siano momenti veri, dove non si può portare una maschera"

CHIASSO – Questi sono i giorni dedicati, di norma, ai propri defunti. I cimiteri si riempiono di fiori e di persone che vanno a visitare la tomba di chi non c’è più, anche se per la maggior parte della gente i propri cari sono presenti sempre e non solo inizio novembre. Halloween, con il divertimento dei bambini, è venuto dopo. Ma nell’epoca attuale, come viene vissuta la giornata dedicata ai defunti? E il tema della morte?

Abbiamo interpellato l’arciprete di Chiasso, Don Gianfranco Feliciani, per una riflessione.

È ancora vissuta come una festa dove celebrare i defunti?
“Il ricordo dei defunti tocca tutti. Che poi sia vissuta nell’ottica cristiana è diverso, però il richiamo del ricordo di chi non c’è più è senz’altro sentito. Le persone vanno al cimitero e portano i fiori, il richiamo è totalizzante, tutti vanno”.

Ma portare i fiori al cimitero in queste giornate è qualcosa di sentito oppure è solo una ricorrenza?
“Credo che, credente o no, il ricordo dei nostri morti è dentro di noi, è qualcosa di umano, come è umano avere l’intuizione che loro sono in qualche modo vivi, ci guardano, pensano a noi. Dentro il nostro DNA, prima ancora della fede, c’è l’intuizione che l’amore non muore. Soprattutto in queste giornate saltano fuori i nostri tabù. Tutti abbiamo parenti e amici di là, il pensiero della morte è spesso rimosso, la nostra cultura non ne parla molto. La vediamo in tv o nei film, ma è fiction, non c’è una riflessione sapienziale sulla morte. Si fa finta che non esiste. Per esempio, insegniamo ai ragazzi a scuola come nasce la vita, ed è giusto, certamente nessuno insegna qualcosa sulla morte”.

Come viene vissuta la morte?
“Gli psicologi dicono che un bambino a cinque anni ha già chiara l’idea che deve morire. Se viene meno da parte dei genitori e della scuola il coraggio educativo gli lasciamo mancare qualcosa di essenziale, creando un tabù, il quale è dannoso. Pensiamo a quello del sesso fino a qualche anno fa, creano paura, vergogna, ossessione, fantasmi. Se tutto è imperniato sulla salute, sulla corsa al denaro, sul piacere,sul fisico, la morte è un pugno nello stomaco. E ce ne accorgiamo, la gente fa fatica a portare i bambini al cimitero, secondo me è un danno enorme. Crea un vuoto in loro, e le rimozioni sono sempre dannose. I cimiteri in questi giorni sono affollati ma mancano i ragazzi e i bambini, un grande sbaglio”.

Non può essere che, con la vita che scorre veloce, i bambini scordino più facilmente il lutto per un parente, un nonno di solito, che muore, rispetto a un adulto che perde un genitore o un partner?
“Il bambino si pone però il problema, piano piano vedere sparire i nonni o gli anziani che conosce. Non informarlo e accompagnarlo in questa scoperta è brutto e dannoso”.

A lei come arciprete, ci sono persone, bambini o adulti che siano, che parlano della morte?
“Dietro tutti i problemi, i discorsi, anche se non emerge magari chiaramente, ci sono la paura del tempo che passa, della vecchiaia, della morte. È sempre lì, dinanzi a noi. È un timore che assume risvolti anche comici, perché una persona, dicono, dimostra sempre meno degli anni che ha: a un’ottantenne si dice che pare abbia settant’anni, a una novantenne che ne dimostra ottanta. Abbiamo festeggiato qualche tempo fa una signora di 107 anni a Chiasso, ora è deceduta, e molti commentavano che dimostrava solo 97 o 98 anni… La morte non deve mai avere posto nella nostra storia”.

Lei si trova spesso a dover consolare i parenti. Come fa? La sua fede non è mai stata messa alla prova davanti alla disperazione di una famiglia?
“È un discorso prettamente umano. Anch’io sono toccato dalla sofferenza. Siamo come posti dinanzi a un bivio: o la disperazione del non senso, dell’assurdo, oppure aprirsi a una verità che è già dentro il nostro cuore, ovvero che l’amore non muore e i nostri cari sono dentro l’abbraccio d’amore di Gesù. Le assicuro che ci sono molte persone che dentro questo sguardo di fede trovano pace, e il pensiero dei cari defunti porta quiete e serenità”.

Le è successo che un parente magari non accetti quanto sta dicendo, e reagisca con rabbia negandolo?
“Trovo che si drizzano le antenne perché quello che sto dicendo la persona lo avverte già. Nessuno mi viene a dirmi che è morto un parente ed è finito tutto. Chiunque, credenti o no, sanno che l’amore di una mamma, di un padre, di un amico, che ha fatto star bene, non si perde, si sente ancora vivo. Certo, si soffre all’inverosimile, soprattutto all’inizio, però l’intuizione è forte. So di persone che dicono di non credere in Dio ma pregano i loro morti, li invocano, parlano con loro, chiedono aiuto, si sentono aiutati. Il discorso cristiano del paradiso è cristiano ma insieme umano, umanissimo, è già dentro di noi”.

Ci sono persone, soprattutto chi lavora con anziani e malati, che convive ogni giorno con la morte. Come si fa?
“Mi metto anch’io con loro, celebro un centinaio di funerali all’anno, e vedo gente nella fase ultima della vita, o morire. Almeno per me, ma credo valga per tutti, è impossibile farci il callo. Mi commuovo sempre, vengo preso fino in fondo al cuore. Trovandomi spesso in mezzo a defunti e parenti che piangono, la verità umana e di fede, ovvero che i nostri morti vivono, ti dà una marcia in più e una forza per affrontare la vita con forza e speranza. Io dopo un funerale mi sento bene perché vedo che la gente è consolata e rafforzata di una liturgia dove si parla di Cristo che muore in croce e promette il paradiso al ladrone pentito. Non è una poesia che lascia il tempo che trova ma tocca sul vivo, rincuora. Difficile? Anch’io pensavo di non farcela, nei primi anni come prete avevo paura a celebrare un funerale, ora trovo che sia uno dei momento più veri: per altre occasioni puoi mettere una maschera, dinanzi alla morte delle persone che amiamo non puoi non essere vero. Si è richiamati, credenti o no, alle corde più intime che ha dentro di sé, dunque il funerale è un momento vero”.

Paola Bernasconi
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