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Economia
18.11.2017 - 17:000
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:43

Il professionista che aiuta i licenziati. "È come la fine di una relazione. Quel direttore di banca che usciva tutti i giorni in giacca e cravatta e chi perde la moglie. Su Manor dico che..."

Lorenzo Alberto Pool si occupa di outplacement. "Manor quando ha chiuso un ristorante e una filiale si è rivolta a noi per aiutare chi ha perso il posto: chapeau". E ci parla del suo lavoro, "se il tuo essere è basato sull'avere, col lavoro perdi tutto. Fino a volte al suicidio"

BELLINZONA – Siamo invasi da segnalazioni riguardanti la Manor, dopo che il caso della dipendente licenziata a Vezia ha fatto aprire il vaso di Pandora. Vogliamo dare spazio anche a una testimonianza positiva, e come spesso capita nella nostra professione, l’intervista è stata la possibilità di scoprire un nuovo lavoro, importante in un periodo difficile come quello di oggi.

Con Lorenzo Alberto Pool abbiamo parlato di come vive una persona che si trova senza lavoro, e di come può essere aiutata.

Qual è esattamente la sua professione?
“Mi occupo di outplacement, ovvero il ricollocamento. In seguito al licenziamento il coach accompagna la persona nella fase di accettazione della rabbia, della negazione, del lutto, lo aiuta con un’accoglienza psicologica all’inizio. Poi gli dà una mano a riorientarsi professionalmente, dandogli una consulenza nel processo del nuovo impiego, a partire da un cv aggiornato e accattivante, in modo che possa vendere bene le proprie competenze. Si danno i consigli di come ricercare un colloquio, con la mappatura del territorio e l’individuazione di aziende papabili, e sulla preparazione del colloquio, per essere reinserito in un nuovo posto di lavoro. Di solito dura per i manager dal 3 ai 6 mesi, per i top manager anche a un anno. Io mi occupo di loro, soprattutto”.

E ha avuto un’esperienza positiva con Manor, giusto? Ce la racconta?
“La Manor ha offerto l’outplacement di tre mesi a dei suoi ex dipendenti. Si tratta di quando hanno chiuso il ristorante Manora a Muralto e poi con la filiale di Viganello. Se ben ricordo, sono state una dozzina le persone a perdere il posto, sono state mandate da noi da Manor, che ha pagato il nostro servizi. Tutti hanno un vissuto, e fa parte del lutto. C’era chi aveva lavorato per vent’anni, chi era arrabbiato, chi era deluso. Un licenziamento è la rottura di una relazione, come quella di coppia, in fondo. Si guardano le colpe, e si ha amarezza. È normale che sia così: se ti licenziano per una ristrutturazione, oppure lo fai tu perché non sei contento, è sempre la fine di una storia”.

Dunque, vuole spezzare una lancia a favore di Manor, aspramente criticata da molti ex dipendenti…
“Devo dire che non ho trovato altre aziende che abbiano offerto un outplacement a persone non altamente formato. Di solito lo si fa con i manager, che io sappia non era mai successo con impiegati. Si sono impegnati. Potevano solo chiudere, invece prima della chiusura hanno offerto un lavoro di qualità a della gente che sennò sarebbe rimasta spiazzata. Ha permesso loro di tornare sul mercato con gli elementi di competitività. Manor ovviamente non è una ONG, in questi due casi però ha dato un aiuto sostanzioso. C’è stata una persona in particolare che ha parlato molto male dell’azienda, si è sentita maltrattata e amareggiata, perché voleva un altro posto in un’altra sezione. Poi posso dire che ho visto casi all’interno di Manor in cui dirigenti hanno cercato di aiutare e di permettere di lavorare a persone in difficoltà”.

Lei si occupa prevalentemente di manager e persone qualificate. Come reagiscono a un licenziamento, magari dopo aver dato per l’azienda, dopo aver addirittura in alcuni casi avuto un burnout?
“Tutte le persone licenziate vivono un momento di rabbia. Passata la fase del rancore, dove investi energie nei confronti del tuo vecchio partner (come appunto nelle coppie), è concentrato su di esso e non sul futuro, dunque tutto è difficile. Bisogna dire che non tutte le ciambelle escono col buco, per vent’anni è andata bene ed ora la situazione è questa. Se investo rabbia questo non mi aiuta, anzi vado a un colloquio arrabbiato e non sarò il prescelto”.

Solitamente le persone che vengono da lei vengono licenziate per motivi economici?
“Sì. C’è per esempio la fusione, penso a Cablecom quando si è fusa con Cableom Austria, oppure la Caterpillar di Riazzino, il cui gruppo americano ha scelto di non investire più a Riazzino. Sostituzione con frontalieri? Non mi è mai capitato, ho sentito dire che capita: vedo venti manager circa ogni mese, e direttamente non mi è mai successo. Nessuno mi ha mai detto di essere stato licenziato e che un frontaliere è stato assunto al suo posto”.

Come lavora con loro?
“All’inizio sempre rabbia e delusione. Io faccio un de briefing psicologico per far capire che investire rabbia e dunque energia al vecchio datore non aiuta a raggiungere l’obiettivo, ovvero rientrare nel mercato del lavoro. Se non hanno fatto questo percorso di elaborazione del lutto, il professionista di risorse umane non lo sceglierà a un colloquio successivo, visto che porta con sé rabbia. È come dire, preferiresti andare a fare un giro in barca con una persona felice o una arrabbiata?”.

Capita di trovarsi davanti a persone con sensi di colpa o depressione?
“Più che altro una grande paura. Dopo i 50 anni è difficilissimo rientrare nel mercato del lavoro, per alcune categorie anche dopo i 40. Lavoriamo con una psicologa che si occupa della resilienza, che parla di come trovare le energie dentro di sé per affrontare il momento difficile. Non è solo la perdita del lavoro bensì anche di identità psicologica. A volte dei manager oltre a perdere il posto perdono la moglie, purtroppo. Il lato positivo è che si vede il valore delle relazioni: chi davvero ti è amico ti rimane vicino, chi lo faceva solo perché eri ricco e potente se ne va. E qualche volta c’è anche la moglie”.

Se capisco bene, spesso queste persone non hanno problemi economici ma senza il loro lavoro sono sole…
“Vero. E col senso di vergogna. Pensi che io avevo un cliente, un direttore di banca, che era stato licenziato e che non aveva detto nulla a casa. Ogni mattina si vestiva in giacca e cravatta e usciva con la sua borsa. Si vergognava, ma questo sentimento viene dalla perdita di ruolo, si passa per lo sfigato di turno. C’è un processo di elaborazione anche in questo caso”.
Si può dire che trovare lavoro è paradossalmente meno difficile che accettare di averlo perso?
“Si. Accettare di aver perso il lavoro è un processo molto difficile. Quasi tutti hanno paura di essere lasciati a casa”.

Cosa si senti di dire a chi è stato appena licenziato?
“Dieci anni fa anch’io sono stato licenziato, dunque sono molto vicino a queste persone, le capisco. Il momento è brutto, ma ha le forze, le competenze, che nessuno gli toglie, così come la personalità, deve vedere il lato positivo: può essere un riorientamento, una nuova sfida e ne uscirà più forte.  Purtroppo è vero, non tutti ci riescono e qualcuno si suicida. A me è successo in un solo caso, per fortuna, un fortissimo shock. Preferisco non parlare del caso, comunque. Va detto che sono situazioni che capitano più spesso di quanto si pensi. È la scelta della fuga, anziché la lotta, quando magari hai perso la moglie, quello che avevi, il tuo essere che era basato sull’avere”.


Paola Bernasconi
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