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21.05.2018 - 09:300
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:43

La lezione spagnola secondo Mauro Dell'Ambrogio: "Hanno superato l'Italia per PIL pro capite. Non dimentichiamoci mai di chiederci perché siamo ricchi"

"Sia da insegnamento questo anche per noi, svizzeri e ticinesi, che abbiamo la tendenza a dimenticare quanto il nostro benessere dipenda da aspetti fragili e costantemente in pericolo. Il maggior rischio per noi è quello di affrontare i problemi – quello dei costi della salute o del finanziamento delle pensioni, per citarne un paio – con l’atteggiamento tanto siamo ricchi e possiamo permettercelo"

di Mauro Dell’Ambrogio*

 

È recente la notizia che la Spagna ha superato l’Italia per quanto riguarda il PIL pro capite, o il potere d’acquisto individuale. Si dice che il PIL non misura da solo tutti i fattori di benessere, o più ba- nalmente che la felicità non dipende solo dai soldi. Ma avendo i due paesi la stessa moneta, senza deformazioni dovute ai tassi di cambio, culture sociali, clima e geogra e simili, il confronto quantitativo è attendibile.

 


Ed è stupefacente per chi ricorda Italia e Spagna di alcuni decenni fa, quando la prima aveva un PIL almeno doppio della seconda. L’Italia era uno dei paesi più industrializzati al mondo, con imprenditori di successo, infrastrutture turistiche consolidate, benessere in rapida diffusione. La Spagna usciva da una dittatura, soffriva di massiccia emigrazione, aveva agricoltura e infrastrutture arretrate, e l’unico motore economico era un incipiente turismo a prezzi bassi.


Come mai un tale sorpasso in tempi così brevi? In Spagna non si è trovato il petrolio, le dinamiche politiche hanno conosciuto parecchie similitudini, ed entrambi i paesi applicano da molti anni, anche vicendevolmente, le medesime regole dell’UE per quanto riguarda concorrenza, merci, servizi, eccetera. Non ho la competenza per un’analisi dettagliata, ma una prima costatazione è evidente, citando Bill Gates: è umana la tendenza a sopravvalutare ciò che si può cambiare in tre o quattro anni, e a sottovalutare ciò che può cambiare in dieci o quindici. E differenze da poco possono avere effetti colossali sul medio termine.

 

Sia da insegnamento questo anche per noi, svizzeri e ticinesi, che abbiamo la tendenza a dimenticare quanto il nostro benessere dipenda da aspetti fragili e costantemente in pericolo. Il maggior rischio per noi è quello di affrontare i problemi – quello dei costi della salute o del finanziamento delle pensioni, per citarne un paio – con l’atteggiamento “tanto siamo ricchi e possiamo permettercelo”. Senza chiederci perché siamo ricchi e grazie a cosa possiamo riuscire a restarlo.

 

Gli aspetti che incidono sulla concorrenzialità internazionale, come il carico scale o gli ostacoli burocratici, sono sottovalutati perché non incidono a breve termine. Ma incide con l’andar del tempo la somma di tante decisioni individuali da essi provocate: se e dove lavorare o investire, quali lavori si è disposti a fare, quale rapporto si ha con lo Stato, le sue prestazioni e i doveri verso di esso. Bastano alcuni passi e tendenze in direzioni sbagliate e dopo una generazione ci ritroviamo a stare peggio dei vicini, oggi più poveri.

 

I prezzi elevati sono uno svantaggio concorrenziale: che si tratti di esportare prodotti o di attirare turisti. Uno svantaggio compensabile soltanto con la qualità, l’innovazione e il coraggio imprenditoriali, non impediti dalla burocrazia. Al costo del lavoro, fattore determinante per i prezzi, concorrono poi numerosi fattori, normativi ma anche culturali. La formazione e le aspettative che essa crea, per cominciare. Ma anche il costo che – attraverso i contributi sociali e imposte – grava sul lavoro produttivo per distribuire a chi non lavora, o fa lavoro artificiosamente mantenuto in vita dallo Stato.

 

In Italia vi sono decine di migliaia di partecipanti a concorsi pubblici per pochi posti nella scuola, quando si sa che l’evoluzione demografica ridurrà il fabbisogno d’insegnanti. A parte che con le risorse sprecate in farraginose procedure d’assunzione – mantenute in vita per un’astratta parità di trattamento – si potrebbero assumere docenti in più: come si fa ad insistere per una prospettiva professionale pari a quella di vincere milioni al lotto? È così totale
la mancanza di alternative, mentre interi settori produttivi sono abbandonati al lavoro nero degli immigrati clandestini? In Spagna vi sono fenomeni simili, come in molti altri paesi del resto, ma basta che siano un poco meno peggio per dare grandi effetti.

 

E da noi è poi così diverso? Le discussioni sui frontalieri, sulla LIA, sono sintomatiche di tentazioni analoghe. Si conta sull’erezione di barriere burocratiche per proteggersi dalla concorrenza, incuranti degli effetti limitati e alla lunga controproducenti. Se le leggi mi impediscono di affidare una prestazione artigianale a chi costa meno, non è detto che possa e voglia affidarla a chi costa di più: semplicemente rinuncio, o investo in una casa all’estero. L’edilizia, fin dai tempi in cui i nostri nonni cominciarono a vendere i terreni con vista lago, è la maggiore industria del Ticino, o almeno quella più abituata a condizionare la politica. E l’ha fatto spudoratamente, attraverso persino la fondazione di un partito.

 

Più difficile farlo per i servizi finanziari, messi in crisi negli ultimi anni da evoluzioni che – per quanto si vaneggi di ritorsioni e mancati ristorni – sfuggono al controllo locale. Si conoscono le alternative di sviluppo economico per il futuro, qua e là con esempi di successo, ma talune misure mettono a repentaglio i nostri vantaggi concorrenziali per promuoverle: formazione vicina ai bisogni professionali, apertura, regole snelle, diffusa attenzione per i doveri prima che per i diritti, attenzione per il mercato e il cliente, prima che per quello che lo Stato prende e dà a me e agli altri.

 

*Segretario di Stato - Articolo apparso su Opinione Liberale

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