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23.04.2024 - 14:080
Aggiornamento: 25.04.2024 - 17:25

Frontalieri: "Fuori fascia o no?” Un pasticcio burocratico che va risolto

Dal 2023 la famosa area dei 20 km è stata modificata, comprendendo 518 comuni in totale, tra cui 71 comuni italiani in più, con evidenti discrasie rispetto alla disciplina precedente

di Francesca Amaddeo*

L’Accordo amichevole italo-svizzero che ha determinato, con l’ausilio dell’aeronautica militare, la famosa area dei 20 km dal confine risale ormai a dicembre dello scorso anno. La lista realizzata sia dell’area italiana sia di quella svizzera di comuni “bacino” di lavoratori considerati frontalieri fiscali esplica effetto dal 1° gennaio 2024. Costituisce un sicuro ausilio nella determinazione della categoria di lavoratori frontalieri ricompresi nel cd. Nuovo accordo, siglato tra dai due Paesi nel dicembre 2020.

Come funziona, però, con i vecchi? Ricordiamo che per “vecchi frontalieri”, si intendono coloro i quali “alla data di entrata in vigore svolgono oppure che tra il 31 dicembre 2018 e la data di entrata in vigore dell’Accordo” (art. 9) abbiano svolto un’attività di lavoro dipendente per un datore di lavoro nello Stato della fonte, diverso da quello in cui hanno il proprio domicilio.

Perché applicare la lista ai vecchi frontalieri potrebbe far sorgere problemi? La disciplina dettata dall’Accordo precedente, datato 1974, non forniva alcun elenco di comuni della fascia dei 20 km. L’unico documento a supporto di tale definizione era, come insegna la dottrina, la Convenzione tra la Svizzera e l’Italia per il traffico di frontiera ed il pascolo del 1958. Successivamente erano state redatte le liste cantonali (aggiornate annualmente) e le prassi delle due autorità. Inoltre, nella riunione annuale del comitato misto, le autorità cantonali fornivano le liste dei comuni cui venivano riversati i ristorni. È a queste fonti, quindi, che si faceva riferimento. Tuttavia, col nuovo monitoraggio datato 2023, la zona dei 20 km è stata modificata ricomprendendo 518 comuni in totale, con 71 comuni italiani in più rispetto a quelli precedentemente elencati dalle autorità cantonali, con evidenti discrasie rispetto alla disciplina precedente. Apparentemente nessun problema: la nuova lista si applica solo ai nuovi frontalieri, per i vecchi continuano a valere le prassi preesistenti.

Tuttavia, il 28 febbraio il Governo italiano sente la necessità di pubblicare una rettifica ad una interrogazione posta al Governo concernente la definizione di frontaliere (interrogazioni n. 5-02058 e n. 5-02061 presentate nella seduta del 27 febbraio 2024). Nello specifico si chiedeva se non si ritenesse opportuno “chiarire che, in riferimento ai ‘vecchi frontalieri’ i cui redditi resteranno quindi soggetti a tassazione imponibile soltanto in Svizzera resta confermata la definizione [...] che i vecchi frontalieri continuano a considerarsi tali in virtù della distanza dal confine svizzero e non dal confine del Cantone presso cui prestano attività lavorativa”. Nella risposta italiana si precisa che: “(…) ai fini dell’individuazione dei cd. vecchi frontalieri da parte dello Stato italiano, deve qualificarsi lavoratore frontaliere colui che ‘esercita un’attività dipendente sul territorio di uno dei Cantoni del Ticino, del Grigioni e del Vallese, e non si richiede l’ulteriore condizione che l’attività sia prestata in un Cantone ‘frontista’ rispetto al comune di residenza’”. Ancora: “[l]a definizione di frontaliere richiamata dalla risoluzione 38 del 2017 non è la sola sufficiente a qualificare i vecchi frontalieri, occorrendo altresì, a tal fine, in coerenza con la prassi applicativa dell’Accordo previgente, che il comune di residenza del lavoratore, oltre ad essere compreso nella fascia dei 20 km dal confine, risulti inserito nelle liste redatte dai tre cantoni della Svizzera”.

Un’ovvietà, si direbbe. Allora perché specificarlo? Perché il riferimento normativo richiamato nell’interrogazione è la famosa Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 38/2017, la quale - sebbene non in maniera diretta - rispondeva ad una specifica interrogazione Parlamentare del tempo, che verteva su una provincia specifica: quello di Sondrio. Benché Sondrio, infatti, non figurasse nella lista cantonale ticinese, ma solo in quella grigionese, con la Circolare 38 venne ricompresa nelle zone considerate “bacino” di lavoratori frontalieri fiscali. Non è possibile ignorare che si tratta, però, di una mera Circolare con valenza puramente nazionale, a livello italiano, e non definita di concerto con la Svizzera. Nella pratica, per il lavoratore non cambiava nulla: in Svizzera veniva prelevata l’imposta alla fonte sul reddito da lavoro dipendente ed erano esentati da obblighi impositivi e dichiarativi in Italia su quel reddito.

Oggi, invece, cosa cambierebbe continuando ad applicare questa Circolare nella vigenza del nuovo Accordo? Secondo la nuova lista, Sondrio figura nell’area di frontiera riconosciuta dall’Accordo 2020. Ne consegue che tutti i lavoratori provenienti da questa provincia (nei confini designati dall’accordo amichevole) saranno considerati dalla Svizzera come nuovi frontalieri. L’imposizione applicata, pertanto, sarà quella ripartita. La problematica sorgerebbe nel momento in cui la precedente prassi italiana di considerare i sondriesi vecchi frontalieri anche nei confronti del Cantone Ticino (non solo del Grigioni, Cantone frontista) venisse estesa anche al nuovo regime. Infatti, in questa circostanza, il Ticino potrebbe imporre solo nel limite dell’80%, considerandoli nuovi frontalieri, mentre l’Italia - per scelta unilaterale - esenterebbe da imposta il reddito, trattandoli come vecchi frontalieri. Il lavoratore, pertanto, otterrebbe un illecito vantaggio di imposta, non scontando quel 20% in nessuno dei due Paesi interessati.

Il tema è ancora aperto e la risposta succitata non chiarisce espressamente la situazione interna italiana. Si auspica che le autorità dei due Paesi trovino un accordo in merito all’interpretazione della fattispecie individuata. L’ipotesi più lineare vorrebbe che entrambi considerassero i sondriesi come nuovi frontalieri. Diversamente, l’Italia dovrebbe assicurare almeno l’imposizione del 20% del reddito imponibile per evitare una doppia non imposizione.

 

* avv. dr. iur., Docente-Ricercatrice Centro Competenze Tributarie e Giuridiche Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana - Dipartimento economia aziendale, sanità e sociale

 

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