"Il problema, dunque, non è Bruxelles. È Berna. È lì che oggi si tenta, con metodi sempre più opachi, di svuotare uno dei pilastri della nostra democrazia"
Di Marco Chiesa (opinione pubblicata sul Corriere del Ticino) *
Dietro l’etichetta di «Accordi Bilaterali III» e la retorica sull’erosione dei rapporti con l’UE si cela un progetto di sottomissione del nostro Paese. Non si tratta di semplice collaborazione economica: è un tentativo mascherato di legare la Svizzera a un sistema istituzionale che mina la nostra autodeterminazione legislativa, giudiziaria e democratica. Il Consiglio federale rilancia in pompa magna l’accordo istituzionale già respinto nel 2021. Cambia il nome, non la sostanza. La speranza? Che una nuova confezione basti a far dimenticare il contenuto. Ma il vino, in queste botti lucidate, è sempre lo stesso. I pilastri dell’accordo restano invariati: ripresa dinamica – leggasi automatica – del diritto europeo, subordinazione alla Corte di giustizia dell’UE e sanzioni camuffate da «misure di compensazione » nel caso in cui la Svizzera osasse discostarsi. Il tutto accompagnato da un obolo di centinaia di milioni di franchi per l’accesso al mercato. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: meno autodeterminazione, meno democrazia diretta, più subordinazione a logiche sovranazionali.
Ancora più grave è la volontà del Consiglio federale di aggirare il referendum obbligatorio, prevedendo soltanto quello facoltativo. Ma quando un accordo internazionale si pone al di sopra della nostra Costituzione, dev’essere sottoposto alla doppia approvazione: popolo e cantoni. Escludere i cantoni significa non solo tradire le nostre radici, ma anche lo spirito federalista della nostra Confederazione. Perché allora questo tentativo di evitare la doppia maggioranza?
La risposta è evidente: si teme il verdetto dei cantoni. Fuori dai grandi centri urbani, questo accordo istituzionale non entusiasma. Meglio allora puntare sulla sola maggioranza popolare, sostenuta dai grandi media, da apparati tecnocratici e da interessi economici globali, piuttosto che rischiare un voto federale che potrebbe confermare la volontà del nostro Paese di restare libero. Evitare la doppia maggioranza è dunque una strategia consapevole per silenziare chi ancora difende la sovranità nazionale e la democrazia diretta di un popolo non certo nato per ratificare decisioni calate dall’alto, ma per determinarle.
E c’è un altro fatto che grida vendetta al cielo: il Dipartimento diretto da Ignazio Cassis si arroga il diritto di scegliere quali parlamentari possano consultare i documenti relativi a questo accordo. Incredibile, ma è proprio ciò che sta accadendo. Alcuni eletti sono stati selezionati arbitrariamente per visionarli, altri esclusi dalla sala di lettura. Un’iniziativa che sovverte la separazione dei poteri: non è un Dipartimento a decidere chi lo controlla. Le commissioni parlamentari esistono per garantire equilibrio e trasparenza. Scavalcarle significa attaccare il cuore stesso delle istituzioni democratiche.
Il problema, dunque, non è Bruxelles. È Berna. È lì che oggi si tenta, con metodi sempre più opachi, di svuotare uno dei pilastri della nostra democrazia: il diritto del popolo e dei cantoni di dire l’ultima parola. Il Parlamento ha oggi una responsabilità storica. Se si crede davvero nella Svizzera, si deve restituire voce anche ai cantoni. Perché la Svizzera non si svende. La si difende. E la si rispetta.
* consigliere agli Stati UDC