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Cronaca
28.04.2016 - 06:000
Aggiornamento: 21.01.2022 - 14:40

Il buio della Svizzera. «Porto dentro di me lo stigma della prigione, ma adesso è il giorno del rispetto»

Ursula Biondi finì nel carcere di Hindelbank perché incinta a 17 anni da un uomo divorziato. Ci racconta il dramma che l'ha segnata e ammonisce: «abbiate fiducia nello Stato, ma non cieca»

ZURIGO - A volte, ci sono ferite che una vita intera non riesce a rimarginare. Quelle di una Svizzera dimenticata da molti, per esempio, quella degli "internati amministrativi" fra il 1942 e il 1981, donne costrette ad abortire o a essere sterilizzate, bambini portati via dalle famiglie e obbligati a lavorare, spesso a subire abusi. Ursula Biondi Müller aveva 17 anni e mezzo quando rimase incinta. «Il padre del mio bambino non poteva sposarmi. Aveva sette anni più di me, era divorziato ma all'epoca si doveva aspettare un anno per risposarsi. Avere un figlio fuori dal matrimonio era uno scandalo, a quei tempi». Ora ha passato la sessantina, e la decisione del Consiglio Nazionale di risarcire le vittime dei fatti con 300 milioni, seppur non è quanto richiesto inizialmente, la fa felice, anche se per anni ha chiesto solo le scuse. La sua voce si fa più squillante quando ne parla. «Oggi è una giornata molto positiva, anche se in Consiglio Nazionale è solo il primo passo. Sono felice per il gran numero di deputati che ha votato a nostro favore. Certo, l'UDC è contrario, ma due o tre suoi esponenti hanno votato di si, e dagli altri ci aspettavamo il voto contrario. Ma guardiamo il lato positivo! È importante per le vittime, molte sono anziane, e ho avvertito molta empatia da molti politici, dai media e dalla gente». Non basta per dimenticare. «Non potremo mai, però il voto di oggi non è solo per noi, ma anche per proteggere le generazioni presenti e future. Devono avere fiducia nello Stato, ma essa non deve essere cieca! Per le generazioni di oggi è fondamentale sapere che se succede qualcosa di grave, non si deve fare come successo con noi, dire che non si può fare niente: dovrebbero difendersi più in fretta! Quanto successo non deve ripetersi, e per questo oggi è la giornata del rispetto verso le vittime». Ma torniamo ai suoi diciassette anni, ricostruiti grazie ai documenti e alle testimonianze che ci ha inviato la stessa Urula. «Le ragazze madri non erano ritenute idonee a crescere i propri figli, ma non c'erano case di correzione dove poter trascorrere le gravidanze, e al quinto mese mi incarcerarono a Hindelbank, in mezzo ai veri assassini, gente che diceva di aver ucciso e di non essere pentita». I genitori erano d'accordo e firmarono per due anni di casa di correzione, senza sapere che la figlia sarebbe finita in carcere e che questo avrebbe segnato la sua vita. «In cella, camminavo avanti e indietro come una tigre in gabbia, e piangevo». Il figlio, al contrario di altre madri, poté rimanere con lei, anche se dovette lottare per non farlo dare in adozione e lo crebbe per cinque mesi all'interno del carcere. «Mi porto dietro lo stigma di essere stata in prigione, senza aver commesso reati e senza essermi potuta difendere. Nessun tribunale mi ha giudicato, a differenza dei criminali che hanno avuto un processo... Per tutta la vita, mi è rimasta l'impressione di dover dare di più degli altri per scrollarmi di dosso il passato. In molti non lo fecero, cadendo nella droga e nell'alcol o anche togliendosi la vita». Non volle raccontarlo a nessuno, «altrimenti sarei morta», tranne che al primo marito (poi ha avuto un'altra figlia). E quando anni dopo ha deciso di scrivere un libro, in molti non le hanno creduto. «Non poteva essere vero che in Svizzera fosse possibile rinchiudere insieme a delinquenti criminali persone che non avevano commesso reati e che non avevano subito processi, pensavano. I media ai tempi non mi ascoltarono». Al telefono, parlando della decisione del Parlamento, ripete più di una volta la parola «rispetto». Non basterà, come ha detto, a dimenticare una pagina buia.
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