CRONACA
Parlare di "guasto" mi ha fatto male. Perchè quella vita persa era molto di più
Ieri tutti sapevano che a bloccare i treni tra Melide e Lugano erano i soccorsi a una persona che si era gettata sotto il convoglio. Eppure nessuno lo ha detto. Abbiamo parlato tutti di guasto: non è giusto, i problemi psichici non sono una vergogna

PARADISO – A volte ci sono notizie difficili da scrivere. In un mondo in cui purtroppo spesso ci si abitua a brutture di ogni genere, a tragedie, a guerre, a morti, eppure capita che qualcosa colpisce. Perché è li, a due passi da noi, perché è reale, è vicino. 

È successo ieri. I treni erano bloccati tra Melide e Lugano, alle stazioni c’era molta gente ferma, nervosa, in ritardo, arrabbiata, convinta di cominciare male la settimana. Si parlava di guasto e le critiche verso le FFS si sprecavano.

Noi come media abbiamo parlato di guasto. Abbiamo riportato ciò che dicevano le FFS, puntando magari cercare di dire quando sarebbero finiti i disagi. Ma qualcosa non andava.
Le voci giravano, veloci. Sui social, sui gruppi WhatsApp. Sul luogo del “guasto” si erano visti un grande dispiegamento di polizia e ambulanze. Sirene, panico, intervento, soccorso, poi disperazione. Chi ha visto, ha sospettato. Ha capito, perché era difficile non farlo. E lo ha detto: “Qualcuno si è buttato sotto il treno”.

Qualcuno si è suicidato, ebbene, diciamolo. Una parola che fa male, è vero. Ma diciamola. Tutti lo sapevano. Noi lo sapevamo. Ma non l’abbiamo scritto, abbiamo parlato di guasto, con un rimescolamento sgradevole allo stomaco. Marco Romano nel suo commento, che avevamo riportato, aveva accennato a un possibile dramma. 

Ufficialmente, non lo sapeva nessuno. Ufficiosamente, ne erano a conoscenza tutti. In molti hanno detto che non capivano perché non lo scrivevamo. Perché parlare di guasto? Il guasto stava altrove, nell’anima di una persona, qualcosa si è spezzato non sui binari ma nel cuore di qualcuno. Che cosa, non lo sappiamo. Possiamo ipotizzare: problemi personali, finanziari, lavorativi. Ci sono tanti maxi temi, in questi anni. oppure tutt’altro. Non possiamo e non vogliamo nemmeno saperlo.

Perché invadere la privacy sarebbe questo, sbattere il microfono sotto il naso dei parenti e chiedere perché l’ha fatto. Domandare una risposta che forse nemmeno loro sanno.

Ma a mio avviso parlare di un guasto e non di una persona che ha deciso di togliersi la vita non è salvaguardare la sua privacy. È nascondere che sia esistito, è coprire la sua drammatica decisione, sicuramente presa non senza difficoltà. È far finta che non ci sia stato un profondo dolore che lo ha spinto a fare qualcosa che senza dubbio darà un enorme dispiacere, inguaribile, a chi lo circonda. 

Le FFS hanno continuato a parlare di guasto. Un media italiano ha usato il termine suicidio. Nessuno dei nostri lo ha fatto, sino al tardo pomeriggio, chiedendosi perché c’è questo tabù. Effetto Werther, si diceva. Il rischio di emulazione, come nella serie televisiva Tredici. Ma davvero si pensa che una persona, perché legge che i treni sono in ritardo a causa del suicidio di qualcuno, si butti sotto il treno? Se in lei alberga questo pensiero, di certo non è perché ha letto la notizia. Il problema è alla base. Quel che non va in lui/lei è altro, è un’angoscia che va accolta, curata.

I problemi psichici sono sempre stati coperti da un manto, manco fossero una vergogna. Come può qualcuno chiedere aiuto, se addirittura bisogna inventarsi guasti per non dire che una persona è morta sotto un treno? Soffrire non è una vergogna.

Personalmente, penso a chi ha fatto quella scelta. Di fronte a una vita persa, che chissà se poteva essere salvata, il ritardo del treno perde importanza. Concorderanno con me tutti coloro che erano sulle banchine ad attenderlo. Penso a chi ha deciso di dire basta, ieri mattina presto.

E mi sento in colpa per aver parlato di guasto, sapendo che non era così. Se vogliamo aiutare chi soffre, non lo faremo nascondendo la sofferenza stessa. Parlarne può aiutare più che coprire, ne sono certa. 

Paola Bernasconi

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