CRONACA
Paolo, suicida a 14 anni perché bullizzato: di chi è la colpa?
La tragedia di Latina scuote l’Italia. La famiglia denuncia anni di soprusi ignorati, la Procura indaga per istigazione al suicidio, il Ministero invia ispettori. Ma resta la domanda: chi non ha saputo fermare tutto quel dolore?

LATINA – Paolo Mendico aveva solo 14 anni, e l’11 settembre scorso si è tolto la vita nella sua stanza, poche ore prima di rientrare a scuola. Un gesto estremo che ha sconvolto la comunità di Santi Cosma e Damiano, piccolo paese della provincia di Latina, e che ha aperto una ferita profonda nell’opinione pubblica. Per i suoi genitori, la risposta è chiara: Paolo è morto di bullismo, vittima di una violenza silenziosa che lo ha accompagnato fin dall’infanzia e che la scuola non ha mai saputo, o voluto, fermare.

Il padre, Giuseppe, non ha esitazioni: “Sono quattro i ragazzi che lo perseguitavano, non tutta la classe. Ma è la scuola che ha fatto cadere nel vuoto le mie denunce”. Le parole dei familiari raccontano un calvario iniziato già alle elementari: matite spezzate, quaderni scarabocchiati, insulti quotidiani, soprannomi umilianti come “Paoletta”, “femminuccia” o “Nino D’Angelo”, per via dei suoi capelli lunghi. Non solo i compagni, ma anche alcuni insegnanti, secondo la famiglia, avrebbero contribuito a isolarlo ed emarginarlo. Cinque anni fa era stata sporta una prima denuncia ai carabinieri contro una maestra che, a detta dei genitori, avrebbe incitato la classe a una rissa contro Paolo. “Non sappiamo che fine abbia fatto quella denuncia – spiegano – non siamo mai stati ascoltati. Eppure abbiamo fatto più di quindici segnalazioni, scritte o verbali, ma nulla è mai cambiato. I professori prendevano nota, ma i servizi sociali non sono mai stati attivati”.

L’inchiesta aperta dalla procura di Cassino, con il fascicolo per istigazione al suicidio, ha già portato al sequestro dei dispositivi elettronici di Paolo e di alcuni compagni, mentre la procura dei minorenni di Roma si prepara ad ascoltare i quattro adolescenti indicati dai genitori come i responsabili delle vessazioni. In parallelo, il ministero dell’Istruzione ha inviato ispettori sia all’istituto tecnico “Pacinotti”, dove Paolo frequentava le superiori, sia all’istituto comprensivo “Guido Rossi”, che lo aveva visto tra i banchi di elementari e medie. L’obiettivo è capire se le segnalazioni siano state registrate, come siano stati applicati i protocolli contro il bullismo e perché i richiami della famiglia siano rimasti inascoltati.

A rendere la vicenda ancora più drammatica c’è l’omertà che avvolge il contesto scolastico. Pochi ragazzi hanno partecipato al funerale e, davanti alla succursale dell’istituto, molti hanno dichiarato di non conoscere Paolo. Un silenzio che pesa quanto gli insulti e le spinte, un vuoto che ha lasciato solo il messaggio inviato dal ragazzo sulla chat di classe poche ore prima del suicidio: “Riservatemi un posto in prima fila”. Una frase enigmatica, ora al centro delle indagini, che sembra rivelare la disperazione di chi non trovava più spazio tra i compagni di scuola e nella vita stessa.

“Viveva in trincea” ha detto lo psicoterapeuta Alberto Pellai, sottolineando come la scuola non debba mai voltarsi dall’altra parte quando un ragazzo manifesta fragilità e chiede aiuto. La sua analisi mette a nudo un punto cruciale: i segnali c’erano, ma non sono stati raccolti. E se oggi la giustizia cerca di attribuire responsabilità penali, resta una responsabilità collettiva che interroga insegnanti, compagni, famiglie e istituzioni. Paolo non ha lasciato lettere, ma la sua morte è una denuncia più forte di qualsiasi parola: il sistema che avrebbe dovuto proteggerlo ha fallito.

La domanda, inevitabile, resta sospesa: di chi è la colpa?

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