CRONACA
Don Leo, il dossier mai scritto
L’intervista de laRegione a Mons. De Raemy riporta alla luce le scelte del vescovo Lazzeri e i dubbi sul mancato intervento
Archivio TiPress

LUGANO - Don Rolando Leo, condannato a metà agosto 2025 per reati sessuali su minori e giovani adulti, sarà trasferito in una struttura fuori Cantone per sacerdoti “in situazioni particolari”, dove seguirà un percorso psicologico e psichiatrico. Lo spiega, in un’intervista a laRegione, l’amministratore apostolico della Diocesi di Lugano, mons. Alain de Raemy, che annuncia anche un contatto costante tra la struttura e la Curia e ricorda che dall’agosto 2024 a don Leo è stata imposta la proibizione all’esercizio del ministero, in attesa delle decisioni canoniche.

Al centro della vicenda c’è però un nodo irrisolto che pesa soprattutto sulle vittime: l’allora vescovo Valerio Lazzeri venne informato già nel 2021 da una vittima, maggiorenne all’epoca dei fatti (episodio del 2017), di un atto sessuale subito mentre dormiva. Come ricostruito nei verbali d’inchiesta e ribadito nell’intervista a laRegione, Lazzeri suggerì la via della Commissione abusi e/o la denuncia penale, ma la vittima non se la sentì né di attivare l’iter interno né di rivolgersi subito alle autorità. Il vescovo convocò quindi don Leo, che ammise “un unico episodio”, e gli impose un percorso terapeutico con uno psicologo di fiducia della Diocesi, chiedendo di essere informato “al minimo dubbio” su comportamenti con minori. Col tempo, tuttavia, gli incontri si diradarono e non arrivarono segnali d’allarme dal terapeuta; lo stesso don Leo assicurò che il percorso procedeva. Lazzeri non approfondì oltre.

Elemento cruciale: in Curia non fu aperto alcun incarto formale. Quando, nell’ottobre 2022, Lazzeri lasciò il servizio episcopale, non trasmise il dossier – inesistente – a nessuno e non informò neppure il Collegio Papio, dove il sacerdote continuava a operare come cappellano e rimaneva a contatto con i giovani (insegnamento, Pastorale giovanile, Ufficio di istruzione religiosa). Una scelta giustificata dall’allora vescovo con la “riservatezza” chiesta dalla vittima, ma che oggi appare quantomeno problematica alla luce delle ulteriori vittime emerse in seguito.

Nel 2024 la prima vittima scopre che non era la sola e si rivolge nuovamente alla Curia. Mons. de Raemy ascolta, verifica e la convince a sporgere denuncia. Da qui si avvia l’iter penale concluso con la condanna e si apre la fase canonica: gli atti del processo, la sentenza completa e le informazioni sulle decisioni curiali saranno inviati al Dicastero per la Dottrina della Fede. In base all’esito, si potrà arrivare o a un eventuale reinserimento molto limitato e vigilato, oppure alla perdita dello stato clericale, con un percorso di accompagnamento nella società nel rispetto dei vincoli imposti dalla giustizia civile.

Sul piano dell’ascolto e del sostegno, de Raemy ribadisce a laRegione la “totale disponibilità” verso le vittime e le loro famiglie. Quanto ai risarcimenti, conferma che “attorno ai 15mila franchi” sono a carico del presbitero condannato; in mancanza di mezzi, la Diocesi può anticipare le somme. Il monitoraggio delle prescrizioni decise dal giudice (accompagnamento psicologico e divieto di contatti con giovani) avverrà anche tramite la struttura fuori Cantone che ospiterà don Leo, in collegamento con Lugano.

Restano tuttavia alcune domande senza risposta, che l’amministratore apostolico non commenta: perché nel 2021 la vittima non fu accompagnata a un’immediata segnalazione all’autorità? Perché non si fermò don Leo evitando che rimanesse a contatto con i ragazzi, anche al Papio? E perché, al momento delle dimissioni del vescovo nel 2022, non venne almeno informato un successore o un responsabile con un passaggio di consegne documentato?

Sul segreto confessionale, de Raemy ricorda che “è e rimane inviolabile” per il confessore, che ha però il dovere morale di persuadere il penitente ad autodenunciarsi e può rinviare l’assoluzione in casi eccezionali. Quanto all’obbligo di denuncia previsto dal Consiglio di Stato nella legge cantonale sulle Chiese riconosciute, il presule si dice favorevole: tale obbligo è già vigente a livello canonico e la Conferenza dei vescovi svizzeri lo ha recepito; perciò “non si può che essere favorevoli” alla sua trasposizione nella normativa civile.

La vicenda mette a nudo la difficoltà di smascherare comportamenti abusanti quando l’autore è una figura carismatica e di fiducia, e la fatica delle vittime a esporsi tra vergogna e paura di non essere credute. Ma interroga anche le prassi interne: trasparenza reale, tracciabilità delle decisioni, tutela prioritaria delle persone più vulnerabili rispetto alla salvaguardia dell’immagine. È lì che, oltre alla giustizia penale e a quella canonica, si misura oggi la responsabilità della Curia di Lugano.

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