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Cronaca
23.02.2018 - 09:000
Aggiornamento: 19.06.2018 - 15:51

Le riflessioni di Del Don, "la società sta sfuggendo di mano. Gli adulti sono immaturi, i ragazzi non hanno tare ma manifestano un disagio. Chiedere aiuto non vuol dire essere messi all'indice"

A margine del caso del Von Menthlen, lo psichiatra ravvisa una difficoltà che coinvolge adulti e giovani. "Gli educatori e i docenti che vogliono cambiare qualcosa sono soli, e non hanno gli strumenti corretti per agire, per cui si cacciano nei guai. Mancano preparazione e supervisione"

BELLINZONA – L’episodio del Von Menthlen, dove un educatore è accusato di essere passato alle vie di fatto con un minorenne, è solo la punta dell’iceberg. È la società di oggi a chiedere risposte diverse a persone, sia adulti che adolescenti, che non riescono a fornirle né a sé stessi né agli altri. Chi non si adegua e decide di provarci lo stesso rischia, per mancanza di mezzi, di incorrere in errori.

È la visione dello psichiatra Orlando Del Don, con cui abbiamo commentato gli ultimi fatti.

Come giudica l’ultimo episodio di cui la cronaca ha parlato?
“I ragazzi possono essere a volte turbolenti, uno degli elementi importanti è però evitare il confronto, la simmetria, il voler mostrare chi è il più forte. Non voglio condannare nessuno, probabilmente l’educatore coinvolto era sotto stress, incapace di gestire la situazione, ha pensato di fare qualcosa di corretto, ma non ha capito che questo è un lavoro di grande stress, come quello dello psicologo. Le provocazioni che arrivano dai ragazzi, che problematici o meno son sempre ragazzi, possono sfiorare l’aggressione fisica, l’insubordinazione per cui bisogna tornare a prendere in mano tutto. Non sono però mai giustificati certi comportamenti, che immagino comunque fatti a fin di bene: il risultato è pessimo, quando si arriva a questo estremi vuol dire che si è perso. La comunicazione è interrotta e usano altri strumenti, come le vie di fatto, ed è gravissimo. Comprendo le reazioni che danno fastidio, però se non vengono usati metodi dialettici, di comunicazione, psicologici, non si va da nessuna parte. Vedo mancanza di preparazione e bisogno di una supervisione che aiuti a gestire il tutto prendendo un po’ di distanza dal vissuto quotidiano. E lo vedo spesso anche nella scuola pubblica, dei docenti hanno paura di affrontare gli allievi, di dire qualcosa ai genitori, essi reagiscono sopra le righe, dunque i professori sono sulla difensiva quando tutto va bene e quando vanno male prova a fare qualcosa e non riesce. È preoccupante per il sistema formativo”.

Crede che questi educatori sono in grado di gestire i ragazzi, magari già con qualche problema alle spalle?
“Io penso di no. È un lavoro estremamente difficile, i giovani, non solo quelli problematici, sono cambiati. C’è un disagio da parte di docenti che si sentono alle strette, alcuni sopravvivono e fanno il minimo indispensabile, altri vogliono dare di più e non hanno gli strumenti per farlo, per cui usano quelli sbagliati, i vecchi sistemi. Se guardiamo negli istituti dove vanno trattati giovani con altri problemi a mio avviso la realtà ha superato le possibilità reali degli educatori. La loro formazione non è più sufficiente. Bisogna cercare di capire anche il contesto affinchè non sia mai solo il docente a occuparsi di un allievo, ma anche le persone che gli stanno attorno: genitori, anche psicologici, parenti, amici di famiglia, per una rete di supporto. Sennò è una lotta fra un sintomo, quello che manifesta il giovane, una richiesta di aiuto espressa in modo inappropriata, e un docente che non può codificare il non detto. La società è complessa, i giovani si trovano in difficoltà a scuola, e anche gli adulti lo sono. Non parlerei di persone gravemente disturbate, semplicemente gli strumenti a disposizione non sono più all’altezza, non solo degli istituti ma anche della scuola pubblica. La colpa non è mai dei ragazzi, che manifestano con la violenza e il rifiuto il loro disagio a crescere, e noi adulti per me siamo immaturi ad assumere il nostro ruolo di persone di riferimento”.

Dunque vedrebbe di buon occhio l’intervento e l’affiancamento di psicologi e psichiatri? Pensiamo anche allo Stralisco, che ha dovuto chiudere.
“Finchè non si riesce a ricompattarsi e a dare possibilità ulteriori ai docenti, bisogna chiedere aiuto. E farlo non è una brutta cosa: non ci si deve sentire messi all’indice per questo. I genitori si oppongono spesso a interventi di questo tipo ma sono correzioni da fare subito, al massimo nel post obbligatorio, sennò si avranno sempre più insuccessi scolastici, che sono la punta dell’iceberg di insuccessi sociali e esistenziali”.

Gli istituti come quelli citati hanno ancora un senso?
“Se non sono dei ghetti sì. Se sono la scusa di toglierli dal percorso classico per avere la coscienza apposto no. Devono portare i ragazzi ad avere lo stesso livello degli altri. Il sostegno è necessario però non per questo essere in un istituto deve essere calcolato come qualcosa che rovina il curriculum di un ragazzo. Bisogna capire perché finisce lì, non può solo essere messo in istituto per raddrizzarlo, non esiste. I giovani non hanno colpa, non sono malati, non hanno tare, sono solo spaventati, in difficoltà a capire cosa succede a loro e intorno a loro, e noi adulti non sappiamo dare le risposte, non abbiamo voglia e tempo, ci troviamo male nella società. La velocità con cui i cambiamenti arrivano, le incertezze, le paure di assumere i nostri ruoli ci mettono in crisi. Pensiamo che i nostri figli non vedono il disagio? La loro provocazione vuol sapere fino a che punto un adulto sa dare le risposte, il sostegno, sennò diventano irriverenti. Sono sintomi, ripeto, non comportamenti da sanzionare perché cattivi”.

Cosa può fare un docente o un educatore?
“La società sta sfuggendo di mano. Alcuni docenti mollano e aspettano solo la pensione, mi dà fastidio invece che chi cerca di reagire e trovare soluzioni è solo. E si caccia nei guai, come questo educatore, come la maestra che a Mendrisio ha legato le gambe alla bambina. I docenti a volte vorrebbero intervenire ma non sono assistiti e soffrono nel vedere che alcuni giovani hanno un percorso già segnato. Il rischio è fare qualcosa senza prima consultarsi con chi può aiutarli, e la buona volontà viene sanzionata. La piaga è questa: chi ha rinunciato e aspetta la pensione non si mette nei guai. Sono già soli, se poi sbagliano si trovano col vuoto attorno, una beffa ulteriore. Si desidera aiutare dei ragazzi abbandonati a loro stesso, ma nel modo sbagliato. Se ci si fa dare una mano, si riesce a far qualcosa senza scoppiare. Ma guai dare la colpa al maestro cattivo o ai ragazzi che non sono quelli di una volta! La società cambia, e anche il DECS di Bertoli è sorpassato dagli eventi, come tutti. Il futuro è qui, ma è peggio".

Paola Bernasconi
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